Tutti certamente ricordiamo il programma Space Shuttle, la serie di spazioplani che presero il posto delle capsule Mercury, Gemini ed Apollo, anguste capocchie di spillo montate in cima agli enormi missili figli dei razzi ideati da Werner Von Braun.
Un progetto che nelle intenzioni doveva rendere lo spazio economicamente sostenibile, riutilizzando le navette e parte dei sistemi di trasporto in orbita bassa (LEO). Non andò esattamente così e la manutenzione (ed errori vari) fu più onerosa del previsto e le missioni ipotizzate con cadenza settimanale vennero portate ad una 100 giorni per ciascuna navetta.
Errori che portarono purtroppo a due gravi tragedie con la perdita delle navette Columbia e Challenger ed i loro equipaggi ricordati nel cimitero di Arlington dagli austeri memoriali dedicati agli equipaggi di quei due tragici voli. Il programma STS (Space Transportation System) terminò nel luglio del 2011 a distanza di 30 anni dal primo volo della navetta Columbia avvenuto il 12 aprile 1981 e dopo 133 voli operativi, 811 uomini trasportati e 20710 orbite compiute intorno alla Terra.
Dalla messa a terra degli Shuttle americani la NASA tutt’ora ricorre (pagando) alle vecchie, rustiche ed affidabili capsule russe Soyuz che anche durante il crollo dell’Unione Sovietica continuarono ad essere prodotte e tutt’ora rappresentano l’unico sistema spaziale al mondo in grado di trasferire equipaggi umani alla Stazione Spaziale Internazionale (ISS).
Dopo la messa a terra degli Shuttle la NASA aprì con decisione ai privati; visionari miliardari con le loro aziende e colossi aerospaziali hanno già prodotto sistemi di trasporto commerciali che contribuiscono alla messa in orbita di satelliti e consegna di rifornimenti ed equipaggiamenti alla ISS stessa.
Lo Shuttle non avrà un successore, un nuovo grande spazioplano pilotato; sono in costruzione (in America) diversi sistemi di trasporto, ma per quanto tecnologicamente più evoluti, si rifanno come configurazione al design delle antiche capsule Apollo.
Parliamo di Orion di Lockheed Martin, destinata ai voli verso lo spazio profondo ed ai veicoli spaziali destinati ai voli in orbita bassa come il CST-100 Starliner di Boeing, la navicella Dragon di SpaceX (le ambizioni di Elon Musk sono di portarla molto più lontano), il piccolo e discusso spazioplano Dream Chaser di Sierra Nevada nel quale l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) è interessata.
Nel 2019, forse vedremo il ritorno di esseri umani su navette americane, ma è da vedere. Gli Shuttle rimasti sono stati tutti musealizzati in diverse località americane ma non sono visitabili all’interno con l’eccezione di alcune repliche costruite negli anni per i test a terra e le simulazioni di equipaggiamenti interni.
Come sempre accade nei paesi anglosassoni, la musealizzazione di una macchina che ha fatto la storia è evento celebrato nel migliore dei modi, eventi mediatici che catturano spettatori, curiosi, media e… sponsor.
Lo scrivente ha avuto l’opportunità di vedere 3 navette “on display”; mancai per poco la quarta (l’OV-104 Atlantis) a causa dellindisponibilità del padiglione-memorial in via di ultimazione presso il Kennnedy Space Center di Cape Canaveral e destinato ad ospitarla.
OV-101 Enterprise
L’unica navetta costruita non in grado di volare nello spazio ed adibita essenzialmente ai tests di sgancio e volo planato verso terra, ebbe come destinazione finale New York.
Fu trasferita a bordo di uno dei due vecchi Boeing 747-100 della NASA modificati per trasportare le navette spaziali sul proprio dorso (parliamo di oltre 68 tonnellate…) ed atterrò all’aeroporto Kennedy e poi trasferita con un pontone via mare sino all’Intrepid Air and Space Museum, collocazione che devo dire non mi piace affatto perché rovina l’estetica esterna della portaerei USS Intrepid e confina lo shuttle all’interno di una tensostruttura costruita sul vecchio ponte di volo. Si poteva fare meglio.. decisamente meglio.
Ma l’arrivo dello Shuttle Carrier Aircraft a New York vide migliaia di persone attorno all’Hudson e per quei pochi minuti nei quali il vecchio Jumbo Jet ed il suo carico transitarono a bassa quota sorvolando il Ponte di Verrazano e poi Manhattan, Jersey City ed Ellis Island, il lavoro si fermò per molti: incollati alle finestre, ai cristalli dei grattacieli o fuori dalle terrazze, uomini, donne e bambini salutarono il flypast dell’Enterprise sventolando lo sventolabile.
OV-103 Discovery
La navetta si trova a Washington, “on display” nel “James S. McDonnell Space Hangar” del museo “Steven F. Udvar-Hazy Center” e meglio noto come Smithsonian:
Inspiration (replica)
Lasciando Cape Canaveral direzione Titusville, FL dove ha sede la US Astronaut Hall of Fame, si trova la replica North American Rockwell “Inspiration”, visitabile internamente anche se gli interni non sono del tutto fedeli:
L’altra replica, l’Explorer (ribattezzata Independence) è stata spostata a Houston, TX al Johnson Space Center mentre un’ulteriore replica si trova a Los Angeles. Questa lunga introduzione ci è servita per ritornare al di qua dell’Oceano Atlantico, in Europa; di nuovo a Spira, al Technik Museum.
Nell’attuare la politica dello specchio l’Unione Sovietica progettò e mise in produzione il progetto BURAN. la propria versione di space shuttle, non senza il contributo dei propri abili servizi segreti.
A Spira è conservato il modello OK-GLI, il testbed che servì di collaudo per la navetta vera e propria, mentre gli altri spazioplani sovietici ereditati dalla nuova e disastrata Russia hanno fatto (purtroppo) più o meno una brutta fine.
Se dall’aspetto esterno i due shuttle sono assai simili, vi sono però differenze sostanziali.
Le navette americane generavano la propria spinta attraverso i propri grandi motori alimentati dal grande serbatoio ventrale esterno e da due boosters laterali che generavano la spinta necessaria per il take-off. Il rientro degli shuttle era esclusivamente pilotato.
Il progetto russo prevedeva il decollo attraverso il grande vettore Energija, un mostro di potenza pari o superiore al più famoso Saturno V americano e la navetta era in grado di volare e rientrare anche in modalità automatica senza astronauti a bordo. Come il progetto Buran, anche Energija venne purtroppo abbandonato a seguito del crollo dell’Unione Sovietica.
Il prototipo OK-GLI entrò in servizio nel 1984 ed aveva lo scopo di testare aerodinamica, controlli di volo, planata e rientro a terra. Eseguì 25 voli in atmosfera tra il 1984 e 1989 contribuendo al successo della prima e purtroppo unica missione orbitale della navetta Buran, avvenuta nel 1988.
A differenza delle navette destinate al volo nello spazio ed a differenza dell’analoga Enterprise americana che veniva portata in volo dal suo aereo-madre B747 e poi sganciata in quota, l’OK-GLI decollava da terra in modo autonomo grazie a 4 propulsori Lyulka AL-31, gli stessi della ben più famosa famiglia di aerei da combattimento Flanker.
Il vano di carico di OK-GLI contiene, oltre agli strumenti vari, i serbatoi di carburante ed altre apparecchiature per il decollo e volo di rientro.
Abbandonato nel 1993 il progetto BURAN per la crisi economica della neonata Repubblica Russa, la storia di OK-GLI, è intrigante e merita di essere raccontata. Dopo 10 anni di abbandono in un hangar, nel 1999 OK-GLI venne portato a Sydney dove fu esibito come attrazione turistica durante i Giochi della XXVII Olimpiade.
Successivamente, la navetta venne acquisita da un gruppo di investitori di Singapore che intendeva portare OK-GLI in giro per il mondo partecipando a mostre ed eventi temporanei dedicati allo spazio e non solo. Comunque siano andate le cose, il viaggio di OK-GLI terminò nel Bahrain, prima ed ultima tappa del progetto.
Pare per problemi finanziari che causarono lo stoccaggio del Buran nel porto locale, la macchina vi rimase sino al 2003 quando il lungimirante Museo di Spira riuscì ad acquisirlo. Lo stato della navetta e gli immancabili problemi burocratici fecero sì che OK-GLI rimase altri 5 anni nello stato arabo, praticamente abbandonato.
Nel Marzo del 2008, giunse l’ora fatidica: il testbed del Buran venne caricato su una nave cargo ed attraverso Suez, Gibilterra e la Manica arrivò nel grande porto olandese di Rotterdam dove vi giunse il mese successivo.
Dopo lo smontaggio di ali e timone dalla fusoliera, una gru deposita la navicella spaziale su un treno di semi-rimorchi con pianale ribassato a sedici assi e trainato da un poderoso Mercedes-Benz Actros SLT 4160 8×6/4; inizia il lento viaggio verso quella che sarà la sua destinazione finale, il Museo della Tecnica di Spira.
Dopo un iniziale tratto autostradale, il Buran venne trasferito su pontone e fatto proseguire lungo il fiume Reno; giunto nei pressi di Spira i pezzi della navetta vennero caricati nuovamente su speciali semi-rimorchi speciali per l’ultima e definitiva tratta in mezzo a due cordoni composti da migliaia di spettatori.
4 potenti trattori, 1 Titan e 3 Actros in colonna entrarono nell’area museale decretando la fine del lungo viaggio dello spazioplano sovietico iniziato nel 1999 e terminato quasi 10 anni dopo.
Vedere trasporti eccezionali di questo tipo è uno spettacolo: strade, ponti, alberi, balconi, svincoli sono ostacoli a volte insuperabili, manovrare in spazi ridotti a pochi centimetri con un colosso a rimorchio richiedono autisti esperti e dotati dei giusti attributi.
La navetta riposa ora nella sala “Apollo and Beyond”, pezzo più importante a fianco della capsula originale russa Soyuz TM-19 ed altri reperti originali o ricostruiti che hanno segnato, e segnano tutt’ora, la corsa allo Spazio.
Tra di essi e collegato al programma Burantroviamo il piccolo spazioplano BOR-5, un modello in scala ridotta 1:8 inviato nello spazio per i test di configurazione aerodinamica, di sopravvivenza al rientro nell’atmosfera e più in generale alla sperimentazione e verifica delle tecnologie per rendere il Buran realmente riutilizzabile.
Su 5 modelli costruiti, solamente due sono sopravvissuti in due decadi di negligenze e trascuratezza; anche le paranoiche misure di sicurezza e mantenimento di segreti che non potevano più esserlo hanno segnato preservazione delle navette classe Buran, incredibili macchine di cui oggi rimane ben poco.
Testo e immagini: Gianluca Conversi